Thomas Sankara – il Che Guevara d’Africa 23 Maggio 2021 – Posted in: Biografie
Thomas Sankara, il Che Guevara d’Africa che voleva cambiare il suo Paese. E aspetta ancora giustizia
Rivoluzionario, carismatico, il presidente dello Stato africano fu ucciso da un commando il 15 ottobre 1987, in una congiura internazionale. Ora finalmente si apre il processo contro i suoi assassini
Per questo è stato ucciso dopo neanche quattro anni di governo, in una congiura internazionale dalle tinte fosche che proprio in queste settimane si tenta di definire grazie, finalmente, a un processo formale nei confronti dei suoi assassini, quasi trentaquattro anni dopo quel 15 ottobre 1987, «giorno in cui uccisero la felicità», come recita un documentario dedicato a questa storia. Il 12 aprile, infatti, il tribunale militare di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, ha aperto ufficialmente un processo nei confronti di Blaise Compaoré, il successore di Sankara alla presidenza, nonché amico e compagno di una vita, accusato di attentato alla sicurezza dello Stato e complicità nell’assassinio.
Un processo tardivo, ma necessario, perché attorno alla morte di Sankara non c’è solo una vendetta o la sete di potere di un compagno che diventa traditore, ma c’è un caso internazionale che ha coinvolto Stati stranieri e che si inserisce nel periodo storico dell’ultima fase della Guerra Fredda.
Thomas Sankara è stato senza ombra di dubbio un personaggio diverso da tutti gli altri, e per questo difficile da inquadrare con comode etichette. Nei suoi appena quattro anni di governo intervenne in tutti gli aspetti della vita dei suoi concittadini, dimostrando una lungimiranza e una visione molto concreta: fece costruire pozzi, scuole, centri per la maternità, ospedali, farmacie, cercando però allo stesso tempo di emancipare il proprio Paese dagli aiuti internazionali che, sosteneva, altro non erano se non un nuovo controllo neocolonialista sugli Stati dell’Africa. Invitava a consumare “burkinabé”, prodotti locali, fece costruire ferrovie, formò insegnanti per abbattere il tasso altissimo di analfabetismo, fece coltivare milioni di piante per fermare la desertificazione (ogni occasione pubblica era buona per mettere un albero a dimora). Iniziò una imponente campagna vaccinale contro morbillo, meningite e febbre gialla che coinvolse volontari e militari dell’esercito, arrivando a vaccinare fino a un milione di bambini a settimana, e ora più che mai ci rendiamo conto di che numero impressionante potesse essere, a maggior ragione in condizioni difficili come quelle del Burkina Faso degli anni Ottanta.
Si adoperò fin da subito per combattere la piaga della fame che colpiva la maggior parte del suo popolo e che fu il suo vero chiodo fisso, promettendo e riuscendo a garantire almeno due pasti e dieci litri di acqua al giorno per tutti i burkinabé. Quando a cavallo tra anni Settanta e Ottanta il Partito Radicale di Marco Pannella fece propria la battaglia contro la fame nel mondo, l’interlocutore simbolico e naturale divenne proprio Sankara, incontrato a Ouagadougou da Pannella e dall’allora segretario del Partito Radicale Giovanni Negri, nel marzo del 1985.
Duro nei confronti dei Paesi del Nord del mondo, non ebbe mai paura di pronunciare interventi scomodi scegliendo le occasioni di maggiore portata e mediaticità. Celeberrimo il suo discorso alle Nazioni Unite del 4 ottobre 1984 in cui fece un discorso sferzante contro il neocolonialismo: «Parlo, anche, in nome dei bambini. Di quel figlio di poveri che ha fame e guarda furtivo l’abbondanza accumulata in una bottega di ricchi. Il negozio è protetto da una finestra di vetro spesso; la finestra è protetta da inferriate; queste sono custodite da una guardia con elmetto, guanti e manganello, messa là dal padre di un altro bambino che può, lui, venire a servirsi». Il discorso fu talmente dirompente e scomodo che venne presto tolto dagli archivi delle Nazioni Unite, e sopravvisse a lungo solo grazie alla registrazione audio di un giornalista burkinabé che aveva seguito il presidente a New York.
Sankara ereditava un Paese poverissimo, all’entrata del deserto del Sahara, senza un accesso al mare, che aveva ottenuto l’indipendenza dalla Francia nel 1960, in cui si erano susseguiti uno dopo l’altro diversi colpi di Stato che di volta in volta avevano apparentemente sconvolto le istituzioni, per poi in realtà non cambiare niente per davvero.
Ma il colpo di Stato del 1983, quello di Sankara e compagni, sarebbe stato profondamente diverso. Per il primo anniversario del golpe, il 4 agosto 1984, Sankara volle dare una svolta al suo Paese, a partire dagli odiosi simboli che ancora ricordavano il passato coloniale.
Quel giorno sarebbe partito proprio dal nome, Alto Volta, e l’avrebbe cambiato in Burkina Faso, “la terra degli uomini integri” nelle lingue dioula e mooré. Poi avrebbe annunciato che anche tutti gli altri simboli dello Stato sarebbero cambiati: la bandiera, l’inno nazionale.
Il Burkina Faso era veramente uno degli Stati più poveri del mondo, senza alcuna materia prima da vendere o da sfruttare, senza il petrolio che aveva la Nigeria, senza le miniere del Mali, senza le pietre preziose del Congo, solo un vasto territorio semidesertico, terra di pastori e agricoltori che vivevano lì da secoli combattendo con le stagioni. I sette milioni di persone che ci vivevano contavano un medico ogni 50 mila abitanti, una mortalità infantile di 107 neonati ogni mille nascite, un tasso di scolarizzazione del 2 per cento, un’aspettativa di vita che sfiorava appena i 44 anni, un debito estero di oltre il 40 per cento del Pil, una desertificazione galoppante, e così via.
Ma tutto questo, e tantissimo altro, venne stroncato violentemente il 15 ottobre del 1987, quando un commando di uomini armati fece irruzione nell’edificio dove Sankara stava presiedendo un consiglio dei ministri, aprì il fuoco e ammazzò il presidente insieme a una dozzina di collaboratori.
Se da una parte fu chiaro fin da subito che in mezzo ci doveva essere Blaise Compaoré, l’amico e il compagno di una vita che decise di tradirlo per diventare lui presidente (cosa che puntualmente accadde), dall’altra negli anni sono emersi sospetti e accuse che hanno fatto diventare la morte di Sankara un caso internazionale che conserva ancora oggi diverse zone d’ombra.
Sono molti i motivi per cui della morte di Sankara non sappiamo ancora tutto e per cui l’istituzione di un processo è arrivata così tardivamente.
Prima di tutto, Blaise Compaoré riuscì a rimanere presidente del Burkina Faso fino al 2014, quando una serie di manifestazioni di protesta lo costrinsero a dimettersi e a fuggire e chiedere asilo in Costa d’Avorio, Paese del quale ha la cittadinanza per via del suo matrimonio con una ivoriana. Durante la sua presidenza, Compaoré non solo ha sempre negato la sua complicità nell’assassinio di Sankara, ma ha anche (inutilmente) tentato in tutti i modi di cancellarne la memoria, costringendo la sua famiglia a fuggire all’estero, impedendo di fatto che venissero condotte delle indagini per trovare la verità, facendo sequestrare e distruggere diversi documenti e carte di Sankara.
In secondo luogo, la Francia, che aveva mantenuto (e mantiene tuttora) un certo controllo sulle sue ex colonie, possedeva nei suoi archivi sottoposti a segreto di Stato una serie di documenti riguardanti la morte di Sankara e i fatti immediatamente precedenti e immediatamente successivi. Questi documenti sono stati desecretati solo negli ultimi anni, e addirittura l’ultimo collo è stato consegnato alle autorità burkinabé solo nel marzo di quest’anno, per volontà del presidente Macron.
Infine, quello che c’è dietro la morte di Sankara è oggettivamente intricato, e risalire alle responsabilità precise di ciascuno è e sarà molto complicato.
Negli anni, grazie al lavoro di molti giornalisti, tra i quali è doveroso citare l’italiano Silvestro Montanaro (scomparso da poco) e il suo documentario “Ombre africane”, si è riusciti a fare un po’ di chiarezza almeno su chi fossero gli autori e gli Stati stranieri coinvolti. Una rete che parte da Oltreoceano, con un ruolo degli Stati Uniti e della Cia, coinvolge la Liberia del signore della guerra Charles Taylor, la già citata Costa d’Avorio del presidente filofrancese Félix Houphouët-Boigny, fino alla Francia, con tutti i suoi “Monsieur Afrique” usati nel tempo per mantenere i contatti politici ed economici con le ex colonie, e alla Libia di Gheddafi, allora terra di addestramento e fornitore di armi a chi volesse avventurarsi in un colpo di Stato.
Questo processo ora ha tutte le carte in regola per poter proseguire e arrivare finalmente alla verità, se non alla giustizia. Verità forse tardiva, ma importante anche e soprattutto per comprendere i rapporti sovranazionali spesso tossici tra il Nord e il Sud del mondo.
(Fonte espresso.repubblica.it)