LE GIOIE DELLE DONNE ROMANE 19 Settembre 2022 – Posted in: Lo Sapevi che – Tags: #curiosità, #curiosity, #fenomenologia, donne antica roma, fenomenologia della lingua, le gioie delle donne romane, lo sapevi che
Le donne romane e le loro gioie!
Cornelia, figlia del generale romano Publio Scipione l’Africano, l’eroe della seconda guerra punica che costrinse Annibale alla resa, rimasta vedova ancora giovane decise di non sposarsi più per dedicarsi completamente all’educazione dei suoi tre figli: Sempronia, Tiberio e Gaio Gracco.
Nonostante numerosi pretendenti l’avessero chiesta in sposa, perfino il re egiziano Tolomeo VIII, la matrona rifiutò sempre, riversando tutto il suo affetto di mamma sui figli.
Si racconta che un giorno “la madre dei Gracchi” ricevette la visita di una ricca nobildonna, che non la finiva più di ostentare e decantare i gioielli che indossava; Cornelia la lasciò parlare, poi chiamò i suoi figli e, rivolgendosi alla vanitosa matrona, disse con orgoglio: «Eccoli i miei gioielli» (Haec ornamenta mea).
Ma Cornelia era una donna diversa dalle altre anche per i contemporanei, presso i quali ebbe una fama non comune, diventando esempio di virtù della matrona perfetta per la sua capacità di conformarsi ai valori e alla sobrietà della tradizione, in contrasto con le signore del suo tempo.
Alcuni studiosi interpretano il famoso aneddoto di Cornelia raccontato dallo storico Valerio Massimo vissuto intorno al I secolo non come la semplice attestazione di un incondizionato amore materno ma lo inseriscono nel più ampio quadro del dibattito e della legislazione contro il lusso, che era argomento attuale all’epoca.
A partire dalla seconda metà del I secolo a.C., infatti i Romani iniziarono ad abbandonarsi sempre più al fasto e all’ostentazione, le donne presero a sfoggiare raffinati gioielli come segno di ricchezza, eleganza, raffinatezza. È in questo periodo che l’oreficeria romana cominciò a svilupparsi anche se bisognerà aspettare fino all’età imperiale perché si esprima in tutta la sua maestosità.
I monili erano realizzati in oro e gemme come smeraldi, zaffiri, diamanti, ametiste e perle.
Particolarmente apprezzati gli smeraldi, pietra portafortuna della dea Venere, che venivano importati dalle miniere d’Egitto.
Cleopatra adorava queste gemme dall’intenso colore verde che al suo tempo rappresentavano rinascita, fertilità, potere ed eterna giovinezza.
L’ultima regina d’Egitto riteneva che lo smeraldo fosse l’unica pietra degna della sua bellezza e per questo, quando riuscì a consolidare il potere nel 47 a.C., rivendicò immediatamente la proprietà delle miniere di smeraldi del paese poiché voleva quelle pietre preziose tutte per sé.
All’epoca si credeva anche che queste luccicanti pietre verdi potessero addirittura curare le malattie degli occhi e donassero, ai possessori, capacità di chiaroveggenza. Pare che l’imperatore Nerone utilizzasse gli smeraldi per correggere i suoi problemi di vista.
I Romani credevano che questa pietra avesse la proprietà di “ristorare” la vista stanca grazie al suo colore verde e infatti Plinio ci racconta come ogni incisore avesse tra gli strumenti di lavoro uno smeraldo per “ristorare” gli occhi dopo una giornata di duro lavoro.
Plinio giudicava lo smeraldo, raro nel mondo greco-romano, inferiore solo al diamante e alle perle.
Queste ultime erano considerate dai Romani la quintessenza del lusso, le più preziose e seducenti tra le gemme, secondo la mitologia nate dalle lacrime degli dei.
Pescate nell’Oceano Indiano e nel Mar Rosso, venivano usate non solo nei gioielli, ma anche come ornamento per i vestiti e pure per i calzari.
Tante sono le storie e le leggende attorno a queste gemme.
Ad esempio, l’imperatore Caligola, passato alla storia per le sue numerose stravaganze, spesso ai banchetti beveva perle naturali immerse nell’aceto di vino. E si narra che donò al suo cavallo Incitatus, da lui già nominato senatore, una magnifica collana di perle. Per non far ingelosire sua moglie però ne regalò una anche a lei, spendendo quaranta milioni di sesterzi.
L’imperatore Nerone, invece, amava rotolarsi fra le perle come passatempo.
Cleopatra possedeva all’epoca le due perle più grandi del mondo, di inestimabile valore, indossate dalla regina come orecchini. Un giorno Cleopatra volendo stupire con la sua ricchezza l’amante, il comandante romano Marco Antonio, gli disse che era in grado di spendere la somma enorme di dieci milioni di sesterzi per una cena. Poi durante il banchetto si fece portare una coppa d’aceto, si tolse uno dei preziosi orecchini di perle, e lo sciolse nell’aceto, sotto gli occhi sbigottiti del conquistatore romano. Infine la bevve.
La fortuna di questa storia fu enorme sin dalla classicità e nel 1743 Giambattista Tiepolo rappresentò l’epico banchetto offerto da Cleopatra ad Antonio, tra i più lussuosi e costosi mai realizzati nella storia di tutti i tempi, in un dipinto in cui l’artista diede alla regina egiziana le fattezze della moglie Maria Cecilia Guardi, attualmente conservato nella pinacoteca della National Gallery of Victoria di Melbourne.
Per la cronaca, dopo la sconfitta di Cleopatra nella battaglia navale di Azio, secondo Plinio la seconda perla le fu presa, divisa in due e collocata alle orecchie della statua di Venere, al Pantheon.
La passione delle donne romane per i gioielli era tale che le matrone non trovavano niente di strano a trasformarsi in gioiellerie ambulanti tanto da arrivare agli eccessi delle matrone più ricche, come Lollia Paolina, moglie di Caligola, che si presentò a una cerimonia poco importante con indosso preziosi in oro, smeraldi e perle per un valore complessivo di 40 milioni di sesterzi!
Plinio e Tacito si dolevano di tanto lusso e sperpero di denaro a causa della vanità femminile. Ma né l’acrimonia dei moralisti né le leggi anti-lusso impedirono che le nobildonne se ne andassero in giro pesantemente ingioiellate o con gioielli particolarmente preziosi, in particolare gli orecchini, che raggiungevano valori fantastici: secondo lo storico e biografo romano dell’età imperiale Sventonio ci fu un generale romano (tal Aulio Vitellio) che con la vendita di un solo orecchino di perle della madre riuscì a finanziare un’intera campagna militare.
Spesso erano addirittura i mariti a rifornire generosamente le mogli di gioielli a scopo di rappresentanza, per mettere cioè in mostra il proprio benessere: a Roma i gioielli costosi erano considerati uno status symbol.
Le nobildonne romane avevano a disposizione una ornatrix, una schiava specializzata nell’acconciatura – operazione molto spesso lunghissima per la complessità delle pettinature che le matrone amavano sfoggiare -, il trucco e l’ingioiellamento della padrona: le ornatrici si preoccupavano di creare gli abbinamenti giusti tra vesti e gioielli della padrona per far risaltare la sua bellezza.
E di gioielli da indossare le nobildonne romane avevano l’imbarazzo della scelta: i ciondoli sul seno, i braccialetti ai polsi, gli anelli alle caviglia e alle dita, la collana e le catenelle intorno al collo, il diadema prezioso sulla testa a coronamento dell’acconciatura elaborata, gli orecchini…
Per fermare l’acconciatura c’erano aghi crinali e reticelle: queste ultime (reticula o retiola aurea), in sottili fili d’oro talvolta arricchiti da gemme, costose ed estremamente delicate. Nel ritratto della c.d. Saffo (ritratto femminile di Pompei) si nota la capigliatura racchiusa proprio in una reticella d’oro.
L’ago crinale era uno spillone, che poteva essere in osso ma anche d’oro, composto da un ago sormontato da una pallina o da decorazioni varie in cui, se cave, potevano essere conservati anche veleni. Questi spilloni avevano lunghezza e spessore variabili e, come racconta Giovenale, spesso venivano usati come armi dalle matrone arrabbiate per colpire le schiave negligenti o
maldestre. Tutti ricordano la povera ornatrix trafitta dallo spillone della padrona non contenta della riuscita della pettinatura.
Molto diffusi gli orecchini (inaures), spesso descritti dagli autori antichi come uno dei monili più amati dalle donne, che facevano a gara per possederne di sempre più preziosi, attirando le critiche ed i rimproveri dei moralisti. Le donne ne portavano anche più di uno per orecchio.
Largamente usati i “crotalia”, così chiamati dal tintinnio che producevano al passo delle matrone, realizzati in oro e dotati di una serie di pendenti con alle estremità perle a volte grossissime o anche grandi pietre preziose. Giovenale, riferendosi alla grandezza delle perle appese alle orecchie delle nobildonne romane ironizzava sulle loro orecchie che si allungavano per il troppo peso da sostenere.
La collana era ovviamente il monile più prestigioso e appariscente perché in primo piano sul petto della persona che la portava.
Essa era solitamente in maglia d’oro lunga circa due metri e mezzo, e veniva indossata mettendola prima intorno al collo, poi passandola sotto al seno e infine chiudendola sul dorso.
Tra i gioielli più caratteristici troviamo anche grossi bracciali spesso a forma di serpente attorcigliato. Dopo che il culto di Iside (dea egiziana della fertilità), si propagò anche nel mondo romano, venne infatti di moda l’effigie del serpente, animale sacro a questa dea, che appariva spesso in bracciali realizzati in oro con diverse spire squamate e occhi di pasta vitrea o pietre preziose luccicanti.
I bracciali, quasi sempre in oro, potevano essere portati sia alle braccia che ai polsi ed anche alle caviglie (periscelides). Le cavigliere possedevano spesso dei pendenti leggeri che risuonavano al passo delle fanciulle: insomma tra orecchini e periscelides il passaggio di una dama non passava inosservato per il tintinnio alle orecchie e ai piedi.
L’ornamento più diffuso tra la popolazione era l’anello. “Dio è ingiusto”, diceva la stilista Marta Marzotto, “Così tanti anelli e solo dieci dita”. È quello che pensavano in età imperiale anche le nobildonne romane che per dimostrare il proprio benessere portavano diversi anelli per ciascuna mano, costume seguito anche dagli uomini.
Il poeta Marziale ironizzava con alcuni caustici epigrammi su quegli uomini che esibivano pesanti anelli d’oro lavorati in maniera particolarmente vistosa, come il poeta Stella, che andava in giro mostrando e rigirandosi continuamente i suoi molti e preziosi anelli infilati in un solo dito oppure Carino che circolava con sei anelli per ogni dito e non se li sfilava mai, né di notte né di giorno, neppure quando si lavava (“Ma non lo fa per esibizione, è perché non ha neppure un cofanetto portagioie”).
Esagerazioni del più importante epigrammista latino? La realtà è che i Romani avevano portato il lusso al punto da avere anelli da inverno e anelli da estate.
Un’altra sorta di anelli era quelli dei quali si faceva uso per sigillare le lettere, i contratti, ma anche i forzieri, gli armadi, le anfore ecc. (l’impronta dell’anello era per i Romani come la firma per noi.
Lo scrittore e politico Petronio, famoso durante il principato di Nerone e presunto autore del Satyricon, prima di morire spezzò l’anello perché non si abusasse del suo sigillo per compromettere altri) e per questo molti erano con castone o con gemma incisa.
L’incisione delle gemme diventò così un’arte vera e propria e il loro uso riguardava sia donne che uomini. Sulla pietra si incidevano divinità, simboli romani, teste di imperatori, animali e così via, ma sull’anello d’oro si ponevano pure monete o piccole medaglie. Cleopatra, che indossava meravigliosi gioielli di smeraldo, aveva l’abitudine di offrire in omaggio ai suoi dignitari smeraldi incisi con la sua immagine.
Gli anelli potevano rappresentare non solo un simbolo di status sociale ma anche un pegno d’amore. I Romani, infatti, si scambiavano l’equivalente odierno dell’anello di fidanzamento, l’anulus pronubus, e il vinculum, la fede nuziale, e come noi, li indossavano nell’anulare sinistro poiché da questo dito si riteneva passasse la vena amoris, collegata direttamente al cuore.
Le donne romane, come quelle di ogni epoca, furono grandi appassionate di gioielli, e in età imperiale amarono riempirsi di essi, soprattutto oro e pietre preziose, da capo a piedi.
Allora come oggi regalare un gioiello a una donna significava essere certi di renderla felice o quanto meno di suscitare il suo entusiasmo. In fondo da che mondo è mondo i gioielli, parafrasando una famosa frase di Marilyn Monroe, sono i migliori amici di una donna