Shugendo e l’estremo sacrificio dei Sokushinbutsu 7 Gennaio 2025 – Posted in: Lo Sapevi che
Shugendo e l’estremo sacrificio dei Sokushinbutsu: la disciplina che sfida il tempo e la materia
Ci sono storie che sfiorano l’incredibile, riti che sembrano provenire da un’altra dimensione, lontani dalla frenesia del presente e dal materialismo contemporaneo.
Tra le pieghe della spiritualità giapponese si cela uno dei rituali più estremi e affascinanti della storia: il cammino dei Sokushinbutsu, i monaci che cercavano l’immortalità spirituale attraverso il sacrificio fisico definitivo. Una storia intrisa di dedizione, sofferenza e mistero.
Lo Shugendo: tra montagna e divino
Lo Shugendo, letteralmente “la via dell’addestramento e della prova”, è un’antica forma di buddhismo che mescola elementi sciamanici, taoisti e shintoisti.
Al centro di questa pratica c’è la comunione con la natura, vista non come sfondo, ma come via di trascendenza. I monaci dello Shugendo, immersi nei monti sacri come quelli di Dewa Sanzan, nel nord del Giappone, credevano che attraverso il rigore spirituale e fisico fosse possibile trascendere la carne e raggiungere uno stato di illuminazione eterna.
Ma per alcuni, questa ricerca assumeva una forma estrema: diventare Sokushinbutsu, “Buddha nel corpo”.
Un viaggio di 3.000 giorni verso l’immortalità
La trasformazione in Sokushinbutsu richiedeva un percorso lungo 3.000 giorni, quasi nove anni, divisi in tre fasi di mille giorni ciascuna. Ogni fase rappresentava una progressiva rinuncia al corpo, un distacco dalla materialità per abbracciare il vuoto e la luce interiore.
• Prima fase: il digiuno dell’anima e del corpo
Nei primi mille giorni, il monaco si nutriva esclusivamente di grano saraceno, noci e radici raccolte nelle foreste. Questo regime alimentare aveva lo scopo di ridurre drasticamente il grasso corporeo, limitando così la decomposizione post-mortem. Parallelamente, il monaco si dedicava a un’intensa meditazione per purificare la mente e il cuore, imparando a vivere nella quiete assoluta.
• Seconda fase: l’intossicazione purificatrice
Nei successivi mille giorni, la dieta diventava ancora più estrema: corteccia e radici di pino, simboli di resilienza e longevità. Verso la fine di questa fase, il monaco iniziava a bere un infuso di urushi, un succo tossico ricavato dagli alberi di lacca. Questo intruglio velenoso aveva un duplice scopo: eliminare i microrganismi interni e rendere il corpo un terreno inospitale per la decomposizione, trasformandolo lentamente in una reliquia vivente.
• Terza fase: il silenzio della terra
Disidratato, intossicato e ormai al limite della vita, il monaco passava ai suoi ultimi giorni di preghiera. Veniva sepolto vivo in una cassa di legno, posizionata a tre metri di profondità.
Una canna di bambù lo collegava all’aria e una campanella serviva a segnalare la sua presenza ai compagni. Quando la campanella smetteva di suonare, significava che il monaco aveva lasciato il corpo. A quel punto, la cassa veniva sigillata e lasciata sottoterra per altri tre anni.
La rinascita nella morte
Trascorsi i tre anni e tre mesi, i monaci riaprivano la cassa. Se il corpo era rimasto intatto, privo di decomposizione, il Sokushinbutsu veniva venerato come un Buddha vivente.
Il corpo veniva dipinto con vernice protettiva e vestito con abiti cerimoniali rossi e oro, simbolo di gloria e purezza spirituale. Le spoglie venivano poi esposte nei templi come monito e ispirazione per i fedeli.
Non tutti, però, raggiungevano questo risultato. Molti fallivano, lasciando dietro di sé un corpo corrotto, ma non per questo dimenticato. Il sacrificio era comunque visto come un gesto sublime di devozione e rinuncia.
Un rito tra spiritualità e controversie
Nel XIX secolo, il Giappone mise fuori legge questa pratica, ritenendola disumana. Tuttavia, si pensa che alcuni monaci abbiano continuato a seguirla in segreto fino al secolo scorso. L’ultimo Sokushinbutsu noto è Tetsumon-Kai, morto nel 1829, il cui corpo intatto è conservato a Yamagata, nei monti sacri di Dewa Sanzan.
Oggi si conoscono almeno 24 Sokushinbutsu, sparsi nei templi della regione, silenziosi custodi di un sacrificio che intreccia l’umano al divino. Guardarli significa confrontarsi con la nostra fragilità, con il nostro rapporto con il corpo e la materia.
Riflessioni sul sacrificio e la spiritualità
La storia dei Sokushinbutsu è un esempio straordinario di dedizione assoluta, ma solleva anche domande profonde. Fino a che punto si può spingere l’uomo per cercare l’illuminazione? È davvero necessario un sacrificio così estremo per trascendere il materiale?
Ciò che resta è il messaggio intrinseco di questa pratica: la vita non è solo nel corpo, ma nel significato che decidiamo di darle. I Sokushinbutsu ci ricordano che l’essenza dello spirito umano può andare oltre la carne, sfidando il tempo e la morte stessa.
Shugendō e Sokushinbutsu nella Modernità
Oggi, lo Shugendō continua a vivere come un percorso spirituale unico. Sebbene il Sokushinbutsu sia stato proibito, la pratica ispira ancora riflessioni sul significato dell’abnegazione e dell’illuminazione. I templi nelle regioni montane come Dewa Sanzan e Yamagata accolgono visitatori che vogliono immergersi in un’esperienza di purificazione e connessione con la natura.
Lo Shugendō ci ricorda che la spiritualità non è solo una questione di fede, ma un cammino da percorrere con mente e corpo. Le storie dei Sokushinbutsu, con il loro sacrificio estremo, ci invitano a riflettere sulla capacità umana di superare i limiti e sul significato più profondo del legame tra la vita e l’eterno.
Un invito alla riflessione
Se queste storie ci insegnano qualcosa, è che la ricerca di senso può assumere forme diverse, spesso incomprensibili per chi osserva dall’esterno.
Il Shugendō e il Sokushinbutsu rappresentano una spiritualità profondamente legata alla natura e alla resistenza umana. Ci insegnano che l’illuminazione non è una destinazione lontana, ma un cammino quotidiano che richiede disciplina, sacrificio e armonia con ciò che ci circonda.
Ma, forse, il vero insegnamento è trovare il nostro Shugendo personale: un cammino che non chiede sacrifici estremi, ma ci spinge a coltivare la connessione con noi stessi, con gli altri e con ciò che consideriamo sacro.
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