Cu ‘na Mana ‘Nnanze e n’ata Areto 11 Marzo 2024 – Posted in: Modi di dire – Tags: #CulturaItaliana, #CuriositàStoriche, #EspressioniNapoletane, #FolkloreItaliano, #Linguaitaliana, #PatrimonioCulturale, #StoriaNapoletana, #StoriaNapoletana #EspressioniNapoletane #CulturaItaliana, #TesoriNascosti, #TradizioniDiNapoli, #VieDiNapoli, cedo bonis, Cu 'na Mana annanze e n'ata areto, zitabbona, zitabona
Alla Scoperta di Un’espressione Napoletana: Tra Passato e Curiosità
Hai mai sentito parlare di “Cu ‘na mana ‘nnanze e n’ata arreto” (Con una mano davanti e l’altra dietro)?
Questa pittoresca espressione napoletana nasconde una storia tanto singolare quanto emblematica, che ci riporta direttamente nelle strade vibranti di Napoli, città di una ricchezza culturale inesauribile.
Immaginatevi, per un momento, i debitori di un tempo, che, con passo riluttante, lasciavano il tribunale della Vicaria, una mano posata modestamente davanti e l’altra dietro, in un gesto di disarmante vulnerabilità.
Questo atto non era solo simbolico ma rappresentava la dolorosa realtà di non avere più nulla, nemmeno gli indumenti da offrire per saldare i propri debiti. Un’immagine così vivida evoca immediatamente empatia e riflessione sulle dure realtà del passato.
Nel 1540 il viceré Don Pietro di Toledo riunì tutti gli uffici della magistratura, che erano sparpagliati in diversi luoghi della città, in Castel Capuano che, da fortezza e reggia, fu opportunamente trasformato ed adattato a sede del Tribunale civile e penale, assumendo la denominazione
di Palazzo della Vicarìa (cioè palazzo del vicario del re che sovraintendeva agli affari della giustizia).
di Palazzo della Vicarìa (cioè palazzo del vicario del re che sovraintendeva agli affari della giustizia).
Nel largo davanti alla porta principale del Castello, a destra, sopra una base quadrata di pietra, si alzava una colonna di marmo bianco che veniva indicata come la “colonna infame della Vicarìa”
La Gran Corte della Vicaria, una volta fulcro della giustizia sotto Carlo II d’Angiò, diventava il teatro di queste scene di disperazione.
Immaginate di spostarvi con me a Frattamaggiore nel 1492, quando, a causa di un’epidemia di peste, la corte fu temporaneamente trasferita.
Ancora oggi, il ricordo di quelle esecuzioni capitali e delle teste mozzate esposte risuona tra le strade di Napoli, un echi di un passato tanto cruento quanto affascinante.
Ecco che ci imbattiamo nella “zitabbona”, un rito di umiliazione pubblica dove l’insolvente debitore, privo di ogni bene, si trovava a esporre la propria nudità alla folla, pronunciando il “Cedo bonis”.
Secondo vecchie leggi, quando un fallito o un debitore insolvente fosse disposto (o era costretto) a cedere i suoi beni ai creditori, poteva affrancarsi salendo sul basamento di pietra della “colonna infame”, dove si calava le brache davanti ai creditori stessi e, mostrando pubblicamente il
deretano nudo, lo poggiava (o lo batteva tre volte) contro la colonna (o contro la pietra), pronunciando le parole “cedo bonis”: in tal modo si spossessava dei propri averi.
deretano nudo, lo poggiava (o lo batteva tre volte) contro la colonna (o contro la pietra), pronunciando le parole “cedo bonis”: in tal modo si spossessava dei propri averi.
Le parole “cedo bonis”, per un facile gioco di assonanze, fin dall’inizio si corruppero e divennero “zita bona” non solo nella parlata popolare ma anche negli atti pubblici.
Secondo un’altra versione il debitore insolvente doveva salire sulla pedana, denudarsi, mettersi con la faccia rivolta verso la colonna e pronunciare la formula; ma non era tenuto a poggiare o battere il deretano contro la pietra o contro la colonna.
Va precisato comunque che tale singolare rito giudiziario non era esclusivo del Regno di Napoli e trovava corrispondenza in analoghe procedure di altri ordinamenti giuridici, come quello di Firenze dove il debitore insolvente percuoteva il proprio deretano denudato contro un
“lastrone” posto nel palazzo di giustizia.
“lastrone” posto nel palazzo di giustizia.
Peraltro, sembra che la pena della cedo bonis non dovette essere considerata dai napoletani particolarmente pesante, tanto che non pochi se ne sarebbero avvalsi per definire la propria difficile posizione debitoria.
Il popolino allora inventò la seguente filastrocca:
Colonna santa, colonna viata,
tutte li dièbbete tu m’hai levato;
si sapevo primma la toia vertù
n’avarrìa fatto duciento de chiù.
Per terminare il nostro excursus storico è da dire che nel 1546 lo stesso Don Pietro di Toledo abolì tale vergognosa esibizione sostituendola con un’altra più decorosa: il debitore che ricorreva al disonorevole beneficio del “cedo bonis” non si calava più le brache ma, dopo che il suo
nome e la formula d’uso erano stati gridati dal banditore, rimaneva ritto accanto (o abbracciato) alla colonna, per un’ora, al cospetto dei suoi creditori, tenendo il capo scoperto.
nome e la formula d’uso erano stati gridati dal banditore, rimaneva ritto accanto (o abbracciato) alla colonna, per un’ora, al cospetto dei suoi creditori, tenendo il capo scoperto.
Un’immagine che, nel suo grottesco realismo, ci racconta di un tempo in cui la povertà e il debito erano colpe da espiare pubblicamente.
Anche oggi, espressioni come “Mannaggia â culonna” e “Ha mmustato ‘o culo â culonna” sopravvivono nel linguaggio napoletano, testimoni di una storia che continua a vivere nel parlato quotidiano. Ma non è finita qui.
La Colonna della Infamia, seppur scomparsa dalle vie di Napoli, trova ancora posto nella memoria collettiva, custodita nell’androne delle Carrozze della Certosa di San Martino e immortalata in un dipinto del Seicento.
Questo pezzo di storia, oltre a raccontarci di pratiche giudiziarie del passato, ci regala anche l’espressione “Stà cu ‘e ppacche int’a ll’acqua“, dove appunto il deretano scoperto spesso si bagnava, simbolo di una povertà estrema, reminiscente della vulnerabilità di coloro che furono costretti a mostrare il proprio lato più umiliante.
Queste storie, con il loro carico di umanità e dolore, ci ricordano quanto sia importante conoscere le nostre radici per apprezzare appieno la ricchezza della nostra cultura.
Condividere queste curiosità non è solo un modo per onorare il passato, ma anche per riflettere sulle molteplici sfaccettature dell’esistenza umana.
Raccontare la storia di “Cu ‘na mana ‘nnanze e n’ata arreto” non è solo ripercorrere un antico detto napoletano, ma è immergersi in un viaggio emozionale attraverso il tempo, dove ogni parola svela un mondo di storie, di persone, di vita vissuta.
Ed è proprio questo il potere della linguistica: aprirci porte su mondi sconosciuti, facendoci sentire, per un momento, parte di qualcosa di più grande.
Curiosità
Un detto col medesimo significato conteso tra romani e fiorentini recita: “rimanere come don Falcuccio”, vediamo perchè!
Don Falcuccio, un prete romano di cuore d’oro, è il protagonista di un detto popolare che avverte contro i rischi della generosità estrema.
La leggenda narra che, nel tentativo di aiutare chiunque gli chiedesse sostegno, finì per donare l’ultima sua camicia e mutande a un pover’uomo, ritrovandosi poi nudo, senza più nulla, costretto a coprirsi in modo pudico “con una mano davanti e una di dietro”.
Questa storia, fonte di disputa tra fiorentini e romani sulle sue origini, è diventata simbolo di un altruismo che va oltre il limite, lasciandoci una lezione: attenzione a non esagerare, o si finirà come Don Falcuccio!
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