LA LENTEZZA 2 Agosto 2022 – Posted in: Momenti – Tags: #curiosity, #filosofia, #riflessioni, esistenzialismo, fenomenologia della lentezza, lentezza, modo di vivere, momeni
Sapevi che la lentezza è una qualità sofisticata del nostro cervello?
Il pensiero rapido è legato alla sopravvivenza, il pensiero lento è legato a tutto ciò che richiede una presa di coscienza. Il retaggio consumistico ci ha portato a idolatrare la velocità forse perché è meglio che l’essere umano, ridotto a consumatore, tenga spenta la sua coscienza il più possibile.
“Sei lento” dovrebbe essere un complimento!
Si dice ‘ammazzare il tempo’. E lo si riferisce al tempo libero, a quelle ore – a volte solo minuti – che trascorriamo senza avere l’assillo delle urgenze lavorative, familiari, sociali. Ma perché usiamo un verbo così negativo come ammazzareper descrivere un’esperienza tanto positiva come il ristoro, la pausa?
È a partire da questa constatazione che sul nuovo numero di BenEsseresi approfondisce il valore della lentezza nella nostra epoca così rapida, istantanea e istintiva. In un articolo a firma di Caterina Allegro, con la collaborazione della psicologa clinica Maria Sperotto, si prende innanzitutto atto dell’ombra negativa che spontaneamente associamo a tutto ciò che è lento.
Lento: flemmatico, rilassato, apatico, fiacco, indolente, inoperoso. Veloce: rapido, celere, pronto, agile, svelto, lesto, sollecito, fulmineo, dinamico, spedito, sciolto, scattante. La differenza salta subito agli occhi: i sinonimi del primo termine sono scarsi e hanno per lo più un’accezione negativa, quelli del secondo sono ben più generosi, in termini qualitativi e quantitativi.
Curioso è anche notare che, quando abbiamo infilato una serie di attività – una dietro l’altra, a ritmo serrato – diciamo di aver ottimizzato i tempi. Con l’implicita deduzione che sia ottimo correre, affastellare gesti, stipare un mucchio di spunte sulle cose fatte nel minor tempo possibile.
La dottoressa Sperotto lega questa nostra attitudine, ormai consolidata, all’impressione che il tempo sia una risorsa limitata, e dunque vada sfruttata. La prima parte del ragionamento è corretta: siamo creature limitate – mortali, ecco – e il tempo a nostra disposizione non è illimitato. Possiamo sentire la pressione negativa di questo limite, oppure guardarlo con gli occhi di un contadino a cui è affidato un piccolo orto. E se il tempo, anziché essere sfruttato, andasse coltivato?
Per cogliere l’attimo bisogna fermarsi!
Il verbo sfruttare è proprio uno di quelli perfetti per dipingere il ritratto dell’epoca contemporanea. Anziché mettere a frutto, sfruttiamo. L’orizzonte ecologico integrale che si squaderna è paradossale: alziamo il dito e la voce – in coro con Greta &Co – quando lo sfruttamento riguarda le risorse della terra; ci facciamo molti applausi reciproci quando nella nostra condotta lavorativa quotidiana siamo bravi a sfruttare tempo e occasioni (cioé: a raccogliere il maggior numero di frutti col minor sforzo, impegno di risorse, ecc.).
Ma l’economia del mondo è una sola, quello che vale per l’ambiente naturale vale anche per l’ambiente intimo di ogni anima. Sfruttare è un’azione ultimamente perdente in ogni contesto. Ed è l’abbaglio del famoso carpe diem. Carpire è il gesto di chi rapina o rapisce.
Azzanniamo il tempo per strappargli ogni secondo, passiamo oltre, bulimici di altri minuti e ore di cui impossessarci. Quante volte ci capita di dire: sono stata brava, in mezz’ora ho fatto tutto! Oppure, all’opposto: ho perso un’ora senza concludere niente.
Perché mai un tempo vissuto, e che ci è dato, dovrebbe essere considerato perso? Forse perché il criterio utilitaristico comanda? Ecco perché la dottoressa Sperotto si richiama alla distinzione che gli antichi Greci facevano tra kronos (il tempo come mero susseguirsi di minuti, ore) e kairos (il momento opportuno, cioè il tempo come occasione di senso). Rispetto a ciò:
[…] il valore cronologico passa in secondo piano rispetto al senso di quel minuto per la nostra storia individuale.
All’abbaglio del carpire e sfruttare, si contrappone l’ipotesi dell’accogliere e del fruttare (mia licenza poetica intuitiva, per indicare tutto il tempo necessario affinché un frutto maturi).
La lentezza è stata una conquista del nostro cervello: non è una novità trovare contenuti che valorizzino la lentezza, nel nostro mondo accelerato. L’esperienza di Slow Food , ad esempio, è nata nel 1986. Che la frenesia e la rapidità siano responsabili di una certa corrosione della nostra umanità, è noto da tempo.
Mi sono sempre interessata a questi contenuti sulla lentezza. Mi mancava un tassello fondamentale, anatomico e illuminante. Lo ha evidenziato Lamberto Maffei, già direttore dell’Istituto di Neuroscienze del CNR, nel suo Elogio della lentezza, e ripreso da BenEssere:
[…]il nostro cervello è capace di un pensiero rapido, generato dall’emisfero destro, e di un pensiero lento, che nasce in quello sinistro. Il primo è più antico: è quello legato alla sopravvivenza, alle reazioni istintive, alle immagini. Il secondo, invece, è emerso molto dopo, appena 100.000 anni fa, con il linguaggio, e si è poi consolidato con la scrittura. Dunque la velocità è una skill legata alla sopravvivenza. È di valore nell’emergenza, non sempre e comunque. La spinta data dalla rapidità è ottima quando ci fa correre per afferrare nostro figlio che sta per cadere, non è altrettanto ottima quando c’illude che possiamo fare tutto in un click.
Insomma, il pensiero rapido, che può salvarci la vita di fronte a un pericolo, può diventare
una minaccia per la nostra stessa sopravvivenza quando ci spinge a prendere decisioni avventate su questioni più complesse. Per esempio comprare l’ultimo modello di cellulare e restare senza soldi per la cena.
La lentezza, insomma, è una qualità più sofisticata, che il cervello ha conquistato nel tempo e dà come frutto la contemplazione e il linguaggio e tutte le facoltà artistiche. La caratteristica comune di queste azioni di pensiero è che presuppongono una presa di coscienza. Il retaggio consumistico di cui siamo vittime ci ha portato a idolatrare la velocità forse proprio perché è meglio che l’essere umano, ridotto a consumatore, tenga spenta la sua coscienza il più possibile.
Quanta fretta, ma dove corri? Dove vai? – chiedevano il gatto e la volpe nella famosa canzone di Bennato. Non erano esattamente dei buoni consiglieri, ma fermarsi a capire perché andiamo di fretta è cosa buona. Ed è verissimo che spesso e volentieri la frenesia è una reazione alla paura di stare soli e fermi, a tu per tu con il nostro vuoto.
Ma l’horror vacui può essere ribaltato, immergendosi in esso.
Rallentare non sempre è possibile, possiamo però decidere di dare spazio alle nostre emozioni, anche negative, invece di seppellirle sotto cumuli di cose da fare. «Se impariamo ad ascoltarci, anche nei momenti di vuoto, sarà più facile darsi degli obiettivi coerenti, rispetto ai quali prenda un senso concreto il correre o lo stare fermi». In questo modo, anche quel vuoto di cui tanto abbiamo paura, non sarà più un pozzo senza fondo, ma un momento di passaggio funzionale al cambiamento.
Il cristiano, poi, sa che quel vuoto è pieno di una presenza. E’ un pozzo senza fondo da cui affiora l’amore del Padre, che sussurra sempre e attende, con pazienza, tutta la lentezza di cui siamo capaci. Ci aspetta al varco quando ci fermiamo. Forse la preghiera è il miglior modo di ammazzare il tempo, cioè di ‘uccidere’ le nostre serrate tabelle di marcia e di abitare il vuoto, accogliendo la linfa di vita che sgorga solo quando ci mettiamo in relazione con Chi ci ha fatti.
(Fonte https://bit.ly/3bqIOT8)