Le Quattro Giornate di Napoli: Memorie di uno Scugnizzo 27 Settembre 2023 – Posted in: Date storiche, Momenti – Tags: #biografie, #curiosity, #QuattroGiornateNapoli #MemoriePartigiano #AntonioAmoretti #ResistenzaNapoli, #storia, #好奇心, accadde oggi, Biografien, biographies, biographies of famous people, biography, curiosité, curiosities, curiosity meaning, did you know that, lo sapevi che, Neugier, saviez-vous que, wusstest du das, क्या आप जानते हैं, जिज्ञासा, जीवनी, 你知道嗎 Curiosità, 傳記
Le Quattro Giornate di Napoli
Nel cuore delle strade sinuose di Napoli, tra i mille colori e i profumi avvolgenti, c’è una storia che grida di coraggio e resistenza.
Le quattro giornate di Napoli furono un’insurrezione popolare con la quale, tra il 27 e il 30 settembre 1943 durante la seconda guerra mondiale, la popolazione civile e militari fedeli al Regno del Sud riuscirono a liberare la città di Napoli dall’occupazione delle forze tedesche della Wehrmacht.
Il moto valse alla città il conferimento della medaglia d’oro al valor militare e consentì alle forze Alleate, al loro ingresso a Napoli il 1º ottobre 1943, di trovare la città già libera dai tedeschi, grazie al coraggio e all’eroismo dei suoi abitanti ormai esasperati e ridotti allo stremo per i lunghi anni di guerra. Napoli fu la prima tra le grandi città europee a insorgere contro l’occupazione tedesca, per giunta con successo.
Rivivremo al meglio questa storia riassumendola attraverso i racconti estrapolati da varie interviste nel corso degli anni di un testimone oculare, Antonio Amoretti, un giovane scugnizzo diventato partigiano.
Definendo gli Scugnizzi e i Lazzari
Prima di immergerci nelle vibranti memorie di Antonio, dobbiamo capire chi erano gli scugnizzi e i lazzari.
Lazzari e Scugnizzi, nomi diversi in epoche diverse, per indicare lo stesso anelito di libertà, lo stesso amore viscerale per la propria città, Napoli.
Ma se di diverso, avevano il nome e l’epoca in cui sono vissuti, in comune avevano tanto altro: lo sprezzo del pericolo, la quotidiana vita difficile e stentata, la voglia di sorridere sempre e comunque, il giocare con le proprie vite incuranti delle difficoltà, l’eterna rassegnazione di chi non ha nulla da perdere e che spesso porta a morire da Eroi.
I Lazzari
Prendiamo i Lazzari (o Lazzaroni) per esempio.
Quando ai principi di gennaio 1799 il generale francese Championnet, con la sua armata, è alle porte di Napoli, mentre altri fuggono, i lazzari si mobilitano spontaneamente. Avanguardia combattente di questo popolo immenso sono circa 60.000.
Il termine lazzarone, che ha origine dallo spagnolo lazaros (con riferimento al Lazzaro evangelico e agli stracci di cui era avvolto) è sinonimo, nell’italiano comune, di persona pigra e indolente, o poco di buono.
Secondo alcuni, i “lazzari” costituivano una società nella società del tempo e rispondevano a un loro codice di gruppo. È documentato che nella loro comunità si era sviluppata una vera e propria gerarchia che prevedeva anche l’elezione di un capo, riconosciuto e accolto in via ufficiale dalla corte reale.
I capi lazzari si differenziavano dai gregari per una particolare foggia nell’abbigliamento e nel taglio di capelli: berretto bianco, giacca corta e capelli rasati fin sopra le orecchie (e la fronte). Mentre il luogo di ritrovo di tutti i lazzari era tradizionalmente Piazza del Mercato, il quartier generale dei capi-lazzari era posto presso Porta Capuana. In particolari occasioni furono incaricati del mantenimento dell’ordine pubblico dal re Ferdinando IV di Napoli.
Considerati anarchici per il loro modo di vivere libertario e comunitario, essi non sono né corte dei miracoli, né pezzenti, né tanto meno camorra. La loro vera forza sta nell’essere al di sopra di tutte le esigenze sociali. Essi vivono del nulla, e da questo nulla traggono appunto la loro forza. Consapevoli di ciò, si godono ogni giorno lo spettacolo della vita, pronti ad impadronirsi dei giorni di festa della città, così come dei suoi giorni di guerra. Essi dunque vivono del niente e forse per questo, di lì a poco, sapranno morire alla grande nella difesa della loro Napoli.
Essi si considerano i fedelissimi difensori del Trono e dell’Altare. E non soltanto a parole. Quando tutti diserteranno, essi saranno ancora lì, a morire testardamente p’ ‘o Rre e pe’ San Gennaro.
Qualcuno scrisse che per merito loro, Napoli resta una città in perenne credito con la storia.
Gli Scugnizzi
Il termine “Scugnizzo” deriva dal verbo “scugnare” cioè scalfire. Quello che andava scalfito era lo strummolo: una rudimentale trottola di legno dotata di una punta di ferro, il perno sul quale la trottola, abilmente manovrata, girava.
Lo sfizio dei ragazzini ” ‘e miez’a via” era quello di “scugnare“, ovvero di scheggiare lo strummolo degli altri, con la punta di ferro del proprio. Da qui, “Scugnizzi.”
Lacero, vestito di stracci, cresciuto praticamente in strada: dal basso in cui abita alla pubblica via, è un passo. Lo scugnizzo è un impunito: di punizioni non gliene danno i genitori, che di fatto non se ne occupano, né gli insegnanti, a scuola non ci va.
La sua maestra di vita è la strada: con le sue durezze, ma pure con le sue grandi opportunità. Sempre in giro, dalla mattina alla sera, lo scugnizzo diverte, e si diverte: sa usare la mano e la lingua, e si serve di entrambe con generosità.
Lo scugnizzo dei tempi di guerra era superlativo: piccolissimo, magrissimo, furbissimo. E prontissimo a vendere agli altri scugnizzi i militari americani arrivati a Napoli.
E anche in questo caso, come per i Lazzari, fu proprio la loro vita fatta di niente, a dare loro la forza, l’astuzia e l’arguzia, di liberare Napoli dall’invasore.
Questi termini, che evocano le radici più profonde di Napoli, ci introducono alla storia di Antonio.
La Voce di Antonio Amoretti: Memorie di un Giovane Scugnizzo
Nato a Napoli nel 1927, morto lo scorso anno a dicembre. Amoretti aveva soli 16 anni quando il 28 settembre 1943 decise, insieme a tanti altri giovani napoletani, di scendere in strada a combattere le truppe nazifasciste che occupavano la città.
“Sono nato l’11 settembre del 1927 in un quartiere degradato, via Cento Gradi ai Cristallini, la strada che dai Vergini porta a Capodimonte e all’acquedotto, all’epoca era diviso a sinistra in sezione Stella e a destra San Carlo Arena. Mio padre era un antifascista cilentano. I cilentani antifascisti a Napoli si riunivano presso uno studio dentistico in via Foria di fronte all’Orto Botanico. Era il cosiddetto “dentista comunista” di via Foria, si chiamava Francesco Lanza, “Ciccio Lanza”, di Marina di Camerota”.
Le Quattro Giornate non sono nate per caso, non sono state un evento spontaneo ma organizzato ma dai vari gruppi antifascisti sparsi in tutta la città.
Durante il fascismo c’era un controllo sociale estremo. Per fare qualsiasi lavoro, anche il più scalcagnato come il portiere, c’era bisogno della licenza della Questura e la licenza se non eri fascista non te la rilasciavano.
Anche Mussolini si guardò bene di visitare Napoli : in ogni palazzo c’era il capo palazzo, la spia dei fascisti, scelto dai fascisti «tra i più fascisti» per riferire al circolo rionale di quartiere cosa succedeva, le abitudini delle persone, chi non rispettava il regime.
“È importante dire come si viveva prima, il clima di violenza. Racconto sempre un episodio: Rettifilo. Io bambino, mano nella mano di mio padre. Incrociammo un corteo di fascisti: gagliardetti, camicie nere, manganelli, olio di ricino. Uno di questi energumeni si avvicinò a suo papà con il manganello in mano e disse testualmente: «Pecchè nunn’ e’ salutat?». Mio padre aveva il distintivo degli invalidi della Prima guerra mondiale. Disse una bugia: «Io sono invalido, il braccio non funziona». «E saluti con quell’altra mano» disse il fascista. Mio padre rispose: «Lo vedi a questo? Questo ten’ o’ pepe. Se lo lascio nun’ l’acchiappo chiù». Il fascista non ebbe il coraggio di metterlo in discussione e così papà si salvò da una sonora “paliata”.
Nel frattempo i tedeschi abusavano e depredavano dappertutto e in ogni modo:
“L’Italia fascista era alleata con la Germania nazista ma la realtà è l’Italia era occupata. Lo dimostrano i fatti. Nella primavera del 1943 ci fu una tragedia. Mi pare fosse marzo, domenica pomeriggio. Nel porto di Napoli c’era la nave Caterina Costa: i serbatoi erano pieni di gasolio, era carica di carri armati, cannoni, esplosivi e munizioni. Era pronta per partire per il Nord Africa. Scoppiò un incendio a bordo. La gestione dell’evento per legge spettava all’autorità portuale italiana che visto il pericolo decise di rimorchiare la nave, portarla a largo e affondarla. I tedeschi che dovevano essere alleati e invece erano già occupanti dissero invece che la nave doveva restare là. Migliaia di napoletani per curiosità si sono accalcati ai cancelli del molo. A un certo punto è scoppiato tutto. Pensate che pezzi di carro armato arrivarono ai Camaldoli. Ricordo che stavo a casa, stavamo giocando a carte c’erano anche i ragazzi del palazzo. Fortunatamente avevamo un ricovero dentro le grotte di tufo con una seconda uscita ai Miracoli, detti anche “Miradois”. I nostri genitori cercavano di non farci uscire così il ricovero era vicino”.
Il papà del signor Amoretti era uno dei “ragazzi del ’99”, aveva fatto la Grande guerra. Era un tramviere, dopo la terza elementare c’era una specie di terza media che era la quarta, la quinta e la sesta.
“Papà aveva fatto fino alla sesta. Scriveva benissimo, era una persona molto intelligente. Ricordo il 1938, le leggi razziali. Avevo undici anni. Mio padre arriva a casa incavolato, si sfoga con mia madre e dice: «Gli ebrei hanno combattuto con noi la prima guerra mondiale. Allora erano italiani, perché ora non lo sono più?”
Quattro Giornate di Napoli, combattimenti
La sera del 27 settembre 1943 il papà di Antonio Amoretti torna a casa dopo una riunione, si era decisa l’insurrezione:
«Domani si spara, e si muore, anche. Papà disse a mamma: Attenta a lui, non farlo uscire, riferendosi a me. Purtroppo quella mattina mio padre ebbe un attacco di malaria. Che faccio? Dissi io. Sapevo dove papà teneva la pistola. Papà non può i’, vac’ io. Presi anche un pugnale con cui mio zio era stato colpito in Germania. Avevo sedici anni compiuti l’11 settembre senza poter festeggiare perché non avevamo nulla, neanche l’acqua. Andai casa per casa a chiamare altri ragazzi. Formai una piccola squadra, eravamo cinque- sei. In un certo senso io ero il punto di riferimento per loro perché ero l’unico studente. Tutti gli altri erano garzoni di barbiere, di falegname, di calzolai, di guantai. Per questo dico sempre ai giovani di considerare il valore dello studio. Io comandavo il gruppo. Ecco perché poi mi seguirono nella rivolta».
Una delle eroiche donne della Quattro Giornate, Maddalena Cerasuolo, con Antonio Amoretti sedicenne
Amoretti partecipa alle barricate di piazza Vergini ma interviene anche negli scontri con i tedeschi al Museo.
«C’era un concentramento a piazza Vergini. C’era una barricata. La mia zona era da lì al Museo. Io avevo una borraccia, ci mettevo l’acqua. Mio padre da buon campagnolo aveva fatto una provvista di latte condensato che si allungava con l’acqua. Avevo sempre fame, dissi al comandante se potevo andare a casa a mangiare un po’ di latte. Vado a casa, la finestra di casa mia era a livello del ponte della Sanità. Da lì ho visto i carri armati tigre dei tedeschi. Loro erano stati già cacciati ma c’era questo tentativo di riconquistare la città. Gli storici non hanno capito l’importanza delle Quattro Giornate. Allora scendo e vado ad avvisare il comandante che mi dice: prendi il tuo gruppo e vai a dare una mano. Ecco perché mi sono trovato con Maddalena Cerasuolo. Lì loro avevano messo un tram di traverso ma nonostante questo i tedeschi andarono oltre e arrivarono quasi fino a piazza Plebiscito. Lì sono stati fermati con le barricate e le molotov. L’arma vincente delle Quattro Giornate è stata la bottiglia incendiaria, la molotov secondo me è stata inventata a Napoli. Senza la Resistenza delle donne che contribuirono alle barricate le Quattro Giornate non ci sarebbero mai state».
Nella voce di Amoretti c’è ancora un fuoco che arde. Racconta senza sosta come fosse difficile combattere da terra, con armi arrangiate, mentre i fascisti e i nazisti sparavano granate e mortai dall’alto di Capodimonte, dove si erano asserragliati.
Racconta di come un gerarca fascista che «ne aveva combinate di tutti i colori» fu salvato da linciaggio da un fabbro comunista che credeva nella giustizia; come alle Quattro Giornate abbiano partecipato anche degli ex fascisti e gli ebrei:
“A casa nostra c’era un cugino di papà comandante della guardia forestale di Pozzuoli, un giovane attendente di via Michelangelo, un padre e un figlio ebreo: mio padre chiese di ospitarli alla signora del piano di sopra perché a casa mia non c’era più posto. Poi il figlio che era mio coetaneo venne con me a combattere». Amoretti racconta dei bombardamenti americani del 4 agosto 1943 e di alcune bombe difettate che, inesplose, scoppiarono poi in un ricovero a piazza Mario Pagano provocando quasi cinquecento morti: «Il bombardamento del 4 agosto 1943 fu un bombardamento terroristico. L’armistizio fu annunciato l’8 settembre. Secondo voi un armistizio si fa dalla sera alla mattina? C’erano tutte le cancellerie che stavano lavorando. Quel bombardamento si poteva evitare. Fu una carneficina. Io ho visto il recupero di questi corpi dilaniati nella scuola Andrea Angiulli, la mia scuola elementare. Quest’operazione è durata giorni e giorni: era agosto, immaginate che fetore. Questa cosa mi ha scioccato”.
Quando gli fu chiesto se oggi rifarebbe tutto, Amoretti non esitò un secondo:
“Lo rifarei mille volte ancora. Non mi sono fermato dopo le Quattro Giornate: ho continuato a lavorare per difendere gli ideali della Resistenza e dell’antifascismo. Per me è come una missione io faccio questo da sempre. Se penso all’oggi sono avvilito. È stato trasmesso un messaggio di paura. È la paura che ha fatto vincere questa destra xenofoba e antidemocratica. Vedo molte analogie con il periodo che ha poi portato alla nascita del fascismo. E soffro. Ma non per me, perché io ormai ho un’età: mi dispiace per i giovani. Racconto un episodio. Quando vado a parlare nelle scuole, spesso faccio vedere il famoso discorso di Calamandrei agli studenti milanesi. Un giorno sono andato in un famoso liceo classico nella zona bene di Napoli: è stata l’unica volta che quel video non è stato applaudito spontaneamente. Rimasi scioccato. Capii subito il perché. Sono tutti ragazzi fortunati, pensano di potere ereditare lo studio, la posizione economica, le proprietà. Gli dissi: voi pensate di essere al sicuro ma non potete sapere quello che accadrà. Anche per voi c’è un futuro oscuro. Ci sono forze che approfittano di questa vostra indifferenza per fare i fatti loro. Il vostro avvenire non è garantito come voi pensate”.
Le parole del fu partigiano penetrano nei nostri cuori facendo tanto rumore.
Onoriamo questo ricordo, questa giornata passata alla storia …
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